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Studio Catizone

QUATTRO ANNI DOPO L’INFORTUNIO

Con sempre maggiore frequenza, nell’ambito dei procedimenti penali aventi per oggetto infortuni sul lavoro, i garanti della sicurezza sollevano una questione: in caso di morte o lesione del lavoratore infortunato, il datore di lavoro, il dirigente, il preposto, l’RSPP, possono invocare il proscioglimento dall’accusa di omicidio o lesione personale colposa, attribuendo la responsabilità della morte o della lesione alle cure improprie dei sanitari?

Qual’è la risposta della Corte Suprema? Di grande interesse è il caso affrontato dall’ultima sentenza, relativa a un caso che appare destinato a far scuola. L’amministratore di una s.a.s. fu prosciolto per intervenuta prescrizione dal reato di lesione personale colposa in danno di un dipendente intento a scaricare da un tir con l’aiuto di un muletto delle casseformi e travolto da una di queste casseformi, ma venne condannato per omicidio colposo, in quanto a seguito di quell’infortunio occorso il 25 settembre 2008 il dipendente aveva riportato politraumi vari, trauma cervicale e toraco-addominale, dai quali derivava uno stato comatoso-vegetativo permanente, cui seguiva la morte intervenuta il 18 dicembre 2012. Nell’annullare con rinvio la condanna,

Cass.pen., Sez. IV, 20 aprile 2022, n. 15155 socchiuse una porta al datore di lavoro. Infatti, rilevò che il nesso causale va ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica universale o statistica, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato. E aggiunse che, nondimeno, l’ipotesi accusatoria sulla sussistenza del nesso causale non può trovare automatica conferma solo sulla considerazione del coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto, in modo che all’esito del ragionamento probatorio, una volta esclusa l’interferenza di fattori eziologici alternativi di produzione dell’evento, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato.

 

Con riguardo al caso di specie, la Sez. IV osservò che il nodo da sciogliere -essendo indubbio che l’infortunio produsse nella vittima uno stato di coma vegetativo- riguarda esclusivamente il decesso, collocatosi ad anni di distanza dalla condotta, e coincide con la verifica della sussistenza di una serie causale alternativa, innescante un rischio nuovo e diverso da quello attivato dalla condotta. Spiegò che l’eventuale diversità dei rischi interrompe e separa la sfera di responsabilità del garante (datore di lavoro) dall’evento prodottosi, quando una qualunque circostanza -in questo caso l’eventuale instaurarsi di una patologia del tutto indipendente dalle lesioni riportateradicalmente esorbitante rispetto al rischio che egli è chiamato a governare, inneschi una nuova ed autonoma serie causale. Prese atto che i giudici di merito hanno del tutto pretermesso l’accertamento della causa della morte dell’infortunato, facendo derivare unicamente dallo stato di coma vegetativo, conseguente l’infortunio, l’evento ascritto all’imputato, senza indagare quale patologia abbia mate rialmente condotto la persona offesa al decesso, avvenuto a distanza di oltre quattro anni dall’incidente, né il collegamento con le lesioni riportate in quella occasione. Notò che si tratta di un’indagine indispensabile, che non può incombere sull’imputato, al quale non compete l’onere di dimostrare la sussistenza di una serie causale alternativa, essendo la prova del collegamento fra la condotta e la morte onere specifico dell’accusa.

 

In sede di rinvio, peraltro, la Corte d’Appello condannò nuovamente l’imputato. E questa volta, nella sentenza n. 8888 del 4 marzo 2025, la Sez. III conferma la condanna del datore di lavoro. Premette che le cause sopravvenute idonee ad escludere il rapporto di causalità sono solo quelle che innescano un processo causale completamente autonomo da quello determinato dalla condotta omissiva o commissiva dell’agente, ovvero danno luogo ad uno sviluppo anomalo, imprevedibile e atipico, pur se eziologicamente riconducibile ad essa. Prende atto che la Corte d’Appello, disposta un’apposita perizia medico-legale sul nesso di causalità tra l’infortunio e la morte intervenuta quattro anni dopo, ne ha desunto che eventuali negligenze dei sanitari (per altro ritenute insussistenti) non avrebbero innescato, nelle condizioni date, un processo causale autonomo, ed ha applicato il principio per cui l’intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell’esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l’evento letale, nel caso in esame escluso. Soggiunge che non può ritenersi causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento il comportamento negligente di un soggetto che trovi la sua origine e spiegazione nella condotta colposa altrui. Ne ricava che la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto in tema, posto che nel caso di specie, la serie causale innescata dall’infortunio, che ha cagionato le gravissime lesioni che hanno posto l’infortunato in uno stato di coma neurovegetativo, non è stata interrotta né dalle negligenti omissioni dei sanitari (che non sono state ritenute sussistenti) né da altre concause, quali il calo ponderale o l’alimentazione con la sonda, con le conseguenti prevedibili ma non evitabili sepsi, che se anche possano aver favorito o accelerato il decesso, non lo hanno comunque autonomamente determinato.

 

E non è soltanto questa la porta chiusa al datore di lavoro. Basti pensare che Cass.pen., Sez. IV, 27 gennaio 2025, n. 2983 affronta un caso in cui l’infortunato, a causa di un grave trauma cranico con emorragia subdurale, viene posto in stato di coma, intubato e ricoverato presso il reparto di rianimazione dell’ospedale con prognosi riservata. Qui, sopraggiunge un’infezione settica dell’apparato respiratorio, dovuta al batterio “Acinetobacter Baumani”, trattata con terapie antibiotiche. Successivamente, per la gravità della sua compromissione neurologica, il paziente viene trasferito, ancora in stato comatoso e scarsamente collaborante, presso il reparto di medicina d’urgenza. Tuttavia, data la situazione di grave compromissione delle difese immunitarie, dovuta al quadro clinico generale e all’intubazione, subentra una nuova sepsi causata dal batterio tipicamente nosocomiale della “Klebsiella”, che aggredisce, particolarmente, l’apparato respiratorio fino a provocare una polmonite bilaterale che, infine, conduce il lavoratore alla morte, a quasi due mesi di distanza dall’infortunio.

Conclusione: condanna della datrice di lavoro per omicidio colposo, in quanto non può rientrare nella nozione di sequenza causale completamente autonoma un’infezione ospedaliera conseguente alle lesioni provocate dall’infortunio patito. 

 

Pubblicazione sulla rivista SINTESI – Marzo 2025

 

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